martedì 4 ottobre 2011

Tra le mangrovie soffocate dal petrolio ecco come muore il Delta del Niger


PORT HARCOURT (Nigeria). La linea nera sull´orizzonte separa la vita dalla morte. Sopra, i rami ancora verdi delle mangrovie cercano respiro verso il cielo nigeriano, plumbeo e carico nella stagione delle piogge. Sotto, l´immagine si duplica come in uno specchio, svelato solo da un´increspatura iridescente. Fra il mondo vero e il riflesso, la bassa marea rivela la malattia del Delta più vasto d´Africa: le piante sono soffocate da una patina untuosa. Questo tratto del Niger, nel Rivers State, davanti a Bodo City, è morto, strangolato dal petrolio. Chief Saint Emmah, consigliere cittadino, scuote la testa e indica la distesa oleosa: «C´erano muggini, sardine, barracuda, tilapie... davano da mangiare all´intera comunità, 45 mila pescatori. Sono spariti completamente. Le mangrovie fornivano foglie medicinali, sostegni per i tetti, legna da ardere. Ora marciscono». Otto miglia quadrate di acquitrino sono diventate un panorama immoto, dopo che fra il 2008 e il 2009 un impianto Shell ha riversato nel Niger una robusta quantità di greggio. Quanto, non si sa. Una perdita piccola, dice l´azienda. Ma è durata a lungo. E la piattaforma Shell in Alaska ha perso centomila barili in 7 minuti... », aggiunge il consigliere. Poco più avanti, un ramo del fiume si ferma in territorio della comunità Goi. Qui correnti e maree hanno portato le fuoruscite di due diverse perdite della conduttura Shell Transniger, una del 2004, l´altra nel 2008. L´odore di petrolio è soffocante, il silenzio degli uccelli è surreale, c´è solo qualche cornacchia che passa ben alta. L´unica forma di vita animale sono le libellule, in volo senza posarsi su quella che solo da lontano sembra acqua. Dei vecchi pescatori resta Godspower Davo, che ha 42 anni, ne dimostra venti di più, e pesca da quando ne aveva undici. Mostra la rete, ormai nera. «Ora devo lavorare nei campi, come bracciante. Per mettere a tavola un pesce devo andare lontano, spingere la barca per due ore con la pertica, e arrivare in una zona un po´ meno inquinata. Che faccio se non trovo niente? Prego Dio, perché il giorno dopo la terra mi dia da sfamare la mia famiglia». La morsa dell´inquinamento ha stravolto l´intero ecosistema e imposto gravi difficoltà alle comunità del Delta. Qui fra acqua contaminata e aria irrespirabile l´aspettativa di vita è persino più modesta di quella, già bassa, della Nigeria: chi nasce vicino al fiume può contare su un´esistenza di 41 anni, livello a cui l´umanità arrivava prima della rivoluzione industriale. Persino le abitudini alimentari sono cambiate: a Port Harcourt chi può mangia la carne, spesso più economica del pesce. E nei ristoranti di quella che era una regione pescosissima si serve stoccafisso norvegese. L´impressione più sconvolgente, però, oltre al danno ambientale, è la proporzione fra i disastri e i ricavi delle multinazionali petrolifere. Perché a distruggere il Delta non sono catastrofi o incidenti imprevedibili: sono tubature marce, impianti realizzati al risparmio, tecnologie obsolete di estrazione. In una parola sola: l´arroganza di chi ha concordato le regole del gioco con una dittatura, trascurando ogni considerazione per la gente. E a giudicare dalle denunce delle organizzazioni nigeriane di base, le sorelle del petrolio non sembrano avere alcuna intenzione di ripensare il loro approccio, nonostante persino la prudente agenzia dell´Onu per l´Ambiente abbia chiesto nuove procedure e pulizia dei danni esistenti. Se in testa alle denunce c´è la britannica Shell, che estrae quasi la metà del petrolio nigeriano, anche all´italiana Eni vengono rimproverate le perdite e l´uso del gas flaring, una pratica inquinante vietata dalle norme nigeriane. Il procedimento consiste nel dare alle fiamme il gas che nei giacimenti è associato con il petrolio, per risparmiarsi i costosi impianti che lo riciclano: è il tipico pennacchio di fiamme che sovrasta i pozzi, spargendo fumi e calore. L´azienda italiana respinge le accuse: «Noi non facciamo gas flaring, anzi, ricicliamo il gas per produrre energia elettrica. E le comunità locali ci apprezzano, anche perché i nostri ospedali sono sempre aperti a tutti i nigeriani», dice il portavoce Gianni Di Giovanni. Ma a Ebocha, sullo stabilimento con il cane a sei zampe tre "bocche" sono accese, notte e giorno. «Qui la terra non è più fertile, bisogna seminare quattro volte per raccogliere», racconta Afam Mbas, che vive poco sotto le ciminiere e lamenta difficoltà respiratorie. I corsi d´acqua sono inquinati, persino i tetti soffrono: «Dobbiamo sostituirli ogni tre-quattro anni, le piogge acide li distruggono», dice Elda Dandy del locale Cross Community Network. Intorno all´impianto dell´Eni, guardie di sicurezza "informali" controllano chi passa, affiancando i posti di blocco della polizia. L´intera regione è sorvegliata in modo strettissimo: oltre alla polizia, numerosi checkpoint sono gestiti direttamente dai soldati. Ancora più impressionante è la "militarizzazione" nella zona di Egi, dove la sede della Total sembra una caserma di Kabul, circondata da un muro doppio, con torrette simili a quelle di un carcere di massima sorveglianza. Il filo spinato sopra il muro interno, giurano i locali, è percorso da corrente elettrica. Le misure di sicurezza sono elevatissime, anche se la rivolta armata contro le aziende petrolifere sembra un ricordo del passato, e i sequestri sono ormai rari. Ma l´opposizione allo sfruttamento cambia faccia, è diventata politica, si affida alle organizzazioni di base più che ai kalashnikov. Lavora per proporre soluzioni alternative: la Environmental Rights Action punta a fermare le nuove prospezioni con lo slogan: "Lasciate il petrolio nel sottosuolo". Per Mike Karikpo, portavoce dell´associazione, non è un´utopia: «Se l´estrazione minaccia la vita delle comunità, allora va messa in dubbio. Per noi è pura e semplice questione di sopravvivenza». Ma in questi giorni sta partendo anche l´offensiva legale: Femi Falana, ex difensore di Ken Saro-Wiwa e avvocato più rispettato dell´intera Nigeria, a sua volta ripetutamente incarcerato, ha accettato di rappresentare le organizzazioni del Delta. E annuncia: «Useremo tutte le strade possibili, soprattutto in sedi estere: vertenze contro la Banca Mondiale, cause civili all´estero contro le aziende, denunce penali contro i dirigenti. Voglio portare i direttori delle imprese petrolifere davanti al Tribunale penale internazionale dell´Aja. D´altronde, strappare la terra, inquinare l´acqua potabile, distruggere l´ambiente e impedire la sopravvivenza, che cos´è, se non un crimine contro l´umanità?».
da "La Repubblica" di Domenica 2 Ottobre 2011, Sez. Mondo, Il reportage, pg 17 (edizione cartacea)
LINKS:
www.nigerdeltacongress.com
http://allafrica.com
Il testo compare anche sul sito "Diritti Globali", stesso titolo: "Tra le mangrovie...ecco come muore il Delta del Niger"

sabato 3 settembre 2011

Sos Oceani

SOS OCEANI
REPORTAGE ESPRESSO

Le acque si alzeranno di 180 centimetri. Molte specie marine si estingueranno per asfissia e molte coste scompariranno. Per colpa della CO2. E il quadro catastrofico sul destino dei mari tracciato dagli esperti. Grazie ad anni di rilevazioni operate da migliaia di boe, laser e robot sottomarini.
DI ENRICO PEDEMONTE

Immaginate che da oggi al 2100 il livello degli oceani salga di 180 centimetri, provocando inondazioni e migrazioni di massa; e che l`anidride carbonica assorbita dalle acque metta in moto un meccanismo che provoca l`asfissia e la scomparsa di molte specie, seguendo un copione già recitato quattro volte da madre natura, nel corso di milioni di anni, in occasione delle grandi estinzioni storiche. Non si tratta di previsioni, ma di scenari considerati possibili da "Science", l`organo dell`American Association for the Advancement of Science e forse la più prestigiosa rivista scientifica del mondo, che è appena uscita con un numero speciale sugli oceani nella quale fa il punto sulle ultime ricerche e rilancia con forza l`allarme del riscaldamento globale.
Sono passati tre anni dall`ultimo rapporto dell`Ipcc (Intergovernmental Panel on Cli- mate Change) l`organismo creato dall`Onu per monitorare i rischi del cambiamento climatico. Da allora l`attenzione sul "global warming" sembra essersi appannata. Recentemente si è scoperto che alcuni scienziati hanno falsificato o esagerato alcuni dati, forse spinti più dal loro ambientalismo militante che dall`amore per la verità scientifica. Lo scandalo che ne è seguito- battezzato "climate-gate", il Watergate del clima - ha tolto mordente alla campagna, già indebolita da una crisi economica mondiale che spinge i governi a rallentare un`azione considerata troppo costosa, specie in tempi di bassa crescita.

[Un aereo in volo sullo straordinario scenario della Grande Barriera corallina australiana, la più estesa dei mondo]
[Senza più ossigeno Alcuni esemplari di pesci pagliaccio nella Milne Bay, Papua Nuova Guinea. Il rischio denunciato dagli scienziati è che molte specie di pesci possano estinguersi per asfissia a causa della troppa anidride carbonica assorbita dalle acque]
[Si perderanno chilometri di coste: quelle africane in Mozambico e Egitto. E sono a rischio il Gange e il Mekong, i Caraibi e le Maldive]

Ora "Science" mette sul piatto della bilancia il peso del suo prestigio, con un Rapporto che raccoglie e commenta tutti i risultare delle ricerche che si sono svolte negli ultimi anni, offrendo un quadro che è addirittura peggiorativo rispetto a quello presentato dall`lpcc nel 2007. I ricercatori evidenziano il ruolo fondamentale degli oceani nella stabilizzazione del clima e nel rallentamento delle conseguenze dell`effetto serra. Gli oceani occupano oltre il 70 per cento della superficie terrestre, assorbono il 25-30 per cento dell`anidride prodotta dall`uomo, il 90 per cento del calore che si accumula nel sistema Terra e costituiscono quindi un immenso termostato per il pianeta.
Ma per molti versi le grandi masse d`acqua che avvolgono il mondo sono state fino a non molto tempo fa un organismo quasi sconosciuto.
Negli ultimi anni è stata creata una rete di punti di osservazione che ogni giorno raccoglie un volume di dati a grana sempre più fine. Sparse negli oceani ci sono oggi 4.500 boe attrezzate che segnalano la temperatura delle acque, l`acidità, le caratteristiche dei venti superficiali, la concentrazione del vapore acqueo. Di queste boe, 3.300 sono Robot Argo, mini-sommergibili lunghi un paio di metri che hanno una vita media di quattro anni e ogni dieci giorni si immergono fino a due chilometri di profondità. Questi mini-sommergibili hanno cominciato il loro lavoro di vedetta dei mari nel 2000, grazie a 380 milioni di dollari investiti dalla U. S. Ocean Observatories Initiative, e ogni anno inviano ai laboratori 100 mila rapporti, frutto di altrettante immersioni. Altre boe hanno una vita più breve, sono in balia delle correnti marine e segnalano con continuità al satellite la loro posizione e i dati raccolti sulla superficie. Ma altre informazioni arrivano da migliaia di sensori sul fondo degli oceani e da decine di satelliti che dall`alto misurano l`area dei ghiacci, l`estensione del plankton, le dimensioni dei versamenti di petrolio e altre caratteristiche degli oceani in continua variazione.

[Una vista catturata dall`aereo della costa di Na Pali a Kauai, nelle Hawaii. Sotto, da sinistra, una foca marina, alcuni isolotti e il loro fondo marino della Bahamas e due squali]

[ I mari polari si sciolgono: i ghiacci che li ricoprono nei mesi estivi entro il 2037 saranno scomparsi]

Sono proprio i satelliti, grazie ai laser a microonde, a dirci che dal 1993 a oggi il livello dei mari è salito di tre, quattro millimetri all`anno: se continuasse allo stesso ritmo, in un secolo questa tendenza porterebbe a una crescita di 30, 40 centimetri. Ma non è escluso che il processo possa accelerare, e nel peggiore dei casi "Science" ipotizza un aumento di 180 centimetri, mentre il rapporto Ipcc di due anni fa fissava il "worst case scenario" a 60 centimetri.
L`aumento del livello del mare è dovuto a due cause principali: l`espansione della massa oceanica indotta dall`aumento della temperatura (che tra il `93 e il 2003 ha pesato per il 50 per cento) e lo scioglimento dei ghiacci (che in quel periodo ha avuto un ruolo minore). Ma dopo il 2003 l`aumento di temperatura delle acque superficiali ha subito un rallentamento e il suo contributo alla crescita del livello del mare è sceso, mentre è aumentato quello (oggi al 60 per cento) dei ghiacci che si sciolgono, un processo in continua accelerazione negli ultimi decenni.L'area dei ghiacciai polari cala con grande rapidità: dal 1979 a oggi la loro superficie è diminuita del 7,5 per cento, con una perdita secca di un milione e 250 mila metri quadrati. Andando avanti con questo ritmo, i ghiacciai che ricoprono la superficie del mare nel periodo estivo sono destinati a scomparire nel 2037.
Il Rapporto di "Science" è cauto, costellato di incertezze. E' noto che il riscaldamento delle acque oceaniche adiacenti ai Poli può giocare un ruolo chiave per la stabilità dei ghiacci continentali, quelli che occupano le terre della Groenlandia e dell'Antartico occidentale. Ma nessuno sa quantificare con precisione questo ruolo. Non è un' incertezza di poco conto. Se i ghiacci di Groenlandia e dell'Antartico si sciogliessero completamente causerebbero un aumento del livello del mare di 12 metri, un evento che gli esperti non prendono nemmeno in considerazione, ma che non evitano di sottolineare, per far capire quanto sia delicata la questione.
Le misure inviate dai satelliti ci dicono che l'aumento del livello del mare non è uniforme perché le acque si scaldano in modo diseguale, lo scioglimento dei ghiacci crea correnti in larga misura imprevedibili, la caduta in mare di enormi masse d'acqua dolce genera forti variazioni nella salinità. Per tutti questi effetti combinati, per esempio, negli ultimi vent'anni il livello del Pacifico occidentale è cresciuto tre volte più della media mondiale.
Gli effetti previsti dello scioglimento dei ghiacci sulle coste sono ben noti: inondazioni, penetrazione di acqua salata nelle falde acquifere, distruzione di molte zone salmastre e paludose. Sulle coste a risschi, quelle al di sotto dei dieci metri di altitudine, abita circa il 10 per cento della popolazione mondiale. La mappa di queste aree indica quasi tutte le coste africane, in particolare Egitto e Mozambico, e quelle asiatiche, dall'India orientale fino alla Cina occidentale, specie nei dintorni del delta di fiumi come il Gange, il Mekong, il Changjiang enelle aree sovrappopolate che circondano le metropoli.Tra le isole a rischio sono segnalati i Caraibi e i due arcipelaghi delle Maldive e di Tuvalu, che potrebbero essere sommersi e quindi evacuati già nel corso di questo secolo.
Lo scioglimento dei ghiacci è più nrapido del previsto, anche se non è chiaro se questo trend continuerà fino al collasso definitivo dei ghiacci polari o si fermerà dopo aver raggiunto un nuovo equilibrio. Ma poiché nella comunità scientifica prevale ormai il pessimismo per l'inerzia dei governi, si comincia a pensare alle possibili strategie per limitare i danni della deriva climatica. Il modello indicato è l'Olanda, che ha già cominciato a pianificare nuove strutture di protezione e il ripascimento delle spiagge nel mare del Nord, in un progetto che andrà avanti tutto il secolo. Ma difficilmente molti governi asiatici saranno in grado di mettere in campo cultura, risorse e tecnologia degli olandesi.
"Science" mette in guardia sull'eventualità di possibili cambiamenti non lineari, oggi imprevedibili, causati dalla rapidità dei processi in corso. Negli ultimi trent'anni la temperatura media della Terra è aumentata di 0,2 gradi ogni decennio, ma la gran parte dell'energia termica trattenuta dalla Terra è stata assorbita dagli oceani, specie in una fascia superficiale profonda 600 metri, la cui temperatura è cresciuta di 0,6 gradi negli ultimi cent'anni. La temperatura registrata nel gennaio 2010 è la seconda più alta mai riscontrata in questo mese. In che modo questo inarrestabile cambiamento è in grado di influenzare il comportamento delle correnti oceaniche che giocano un ruolo cruciale nel clima locale dei continenti, specie nell'Europa del Nord, nella biologia degli oceani e nelle sue dinamiche interne?
Susan Lozier, oceanografa della Duke University, ritiene probabile che la grande corrente oceanica che si immerge a sud della Groenlandia, percorre il fondo dei tre oceani per riemergere nell'alto Atlantico, stia rallentando per effetto del riscaldamento delle regioni polari e una diminuzione della salinità del mare in quelle zone. E questo rallentamento è destinato ad avere enormi conseguenze sul clima di diverse regioni del mondo, specie sul Nord Europa, che potrebbe perdere l'effetto equilibratore deòlla corrente del Golfo. Il cambiamento più evidente è stato notato nelle acque polari, dove la temperatura e l'acidità delle acque stanno cambiando più rapidamente che altrove. Ancora una volta gli esperti denunciano una situazione sempre più preoccupante ma mettono le mani avanti. Ammettonoche la certezza del collasso non c`è, perché più studiano l`argomento e più i meccanismi che regolano le correnti oceaniche appaiono complessi. Sono ricercatori,non indovini, e la certezza si avrà solo a disastro avvenuto.

Enrico Pedemonte
da "L'Espresso, 22 luglio 2010